L’Italia a tavola è un universo da scoprire. Un mosaico di sapori, gusti, prodotti unici e specialità in grado di toccare vette altissime quando si sposano con la volontà di produttori e allevatori di seguire la strada dell’eccellenza. È il caso del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale Igp, denominazione che dal 1998 identifica una carne di elevatissima qualità ottenuta solo da bovini delle tre razze tipiche del Centro-Italia - Chianina, Marchigiana e Romagnola - allevati e macellati secondo un rigoroso disciplinare di produzione. Ma come riconoscerla sui banconi delle macellerie o nelle vetrine dei ristoranti? Ricavata da animali di età compresa tra i 12 e i 24 mesi, questa carne si contraddistingue per il suo colore rosso vivo, per la consistenza soda e allo stesso tempo elastica e per la ridotta quantità di grasso visibile in sottili striature che solcano la massa muscolare. Una carne a basso contenuto di colesterolo, ottima se cucinata alla griglia o in padella, allo spiedo o al forno, ma anche come spezzatino o bollita.
Ma come preservare e valorizzare un prodotto zootecnico tanto peculiare? Dall’11 febbraio 2003 se ne fa carico il Consorzio di Tutela Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale Igp, che raduna la filiera dedita alla produzione e alla lavorazione di questa carne. Una filiera in costante ampliamento, arrivata a contare 3.218 allevatori, 77 mattatoi, 77 operatori commerciali, 123 laboratori di sezionamento e 997 macellerie in tutta Italia. Da venti anni il Consorzio è impegnato ogni giorno nel tutelare il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale Igp da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni e uso improprio del marchio. Parallelamente informa il consumatore sulle caratteristiche e sui pregi di questo prodotto. Tutte attività che il Consorzio ha deciso di intensificare in occasione di due compleanni importanti: i 25 anni dell’attribuzione dell’Igp da parte dell’Ue, che risale al 1998, e i primi venti anni del Consorzio di tutela. Traguardi che continueranno a essere festeggiati per il tutto il 2023 con eventi e iniziative che coinvolgeranno i protagonisti della filiera.
Scoprire l’area dove viene allevato il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale Igp significa fare un viaggio nel cuore dell’Italia. Un viaggio tra i pascoli e i piccoli allevamenti delle aree collinari e montane della dorsale appenninica, dove gli animali conducono una vita sana, naturale e che fa bene all’ambiente di cui fanno parte. Un viaggio alla scoperta della qualità, che spazia nei territori di ben otto regioni: Umbria, Marche, Molise, Abruzzo, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Campania. È questa l’area dove tradizionalmente sono allevati i bovini di razza Chianina, Marchigiana e Romagnola. Razze accomunate dal colore bianco del mantello, che contrasta con la cute nero-ardesia in grado di resistere bene ai raggi solari dei pascoli appenninici. Ma questo non basta. È solo l’attenta combinazione tra patrimonio genetico del bestiame, sistemi naturali di allevamento e regole rigorose nella macellazione e nel sezionamento a dare come risultato una carne di assoluto pregio qualitativo.
Sebbene la denominazione Igp abbia voluto legittimare il valore pregiato delle razze bovine italiane a mantello bianco che da oltre duemila anni vengono allevate nel Centro-Italia, l’appartenenza dell’animale alla razza Chianina, Marchigiana o Romagnola non è sufficiente, da sola, per ottenere il riconoscimento Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale Igp. È infatti il rispetto di tutti i punti del disciplinare di produzione a far sì che la carne prodotta possa essere certificata con il marchio Igp. Ma sono molte le regole da rispettare. I vitelli vengono ad esempio allattati naturalmente dalle madri fino allo svezzamento, mentre nell’alimentazione è vietato l’utilizzo di sottoprodotti dell’industria durante tutta la vita dell’animale. Ma dove trovare questa carne così unica? Attraverso una mappa presente sul sito del Consorzio, è possibile conoscere l’origine e il percorso della carne certificata su tutta la filiera, individuare gli operatori che la lavorano e i ristoranti che la utilizzano.
Di Amina D’Addario